Absence – Prequel Scott

06 Agosto 2020

Care lettrici e cari lettori,

siamo molto orgogliosi di presentarvi L’altro volto del cielo, il secondo volume della trilogia Absence di Chiara Panzuti, che uscirà in libreria il dieci maggio.

Per ingannare l’attesa vi offriamo la possibilità di leggere in esclusiva dei capitoli extra sulle vite dei quattro protagonisti prima che diventassero invisibili.

Buona lettura!

 

Agitai la mano con crescente entusiasmo.

«Chiudi la porta, chiudi», ordinai rivolto a Patrick.

Lui già rideva senza ritegno, ma era il bello delle feste a casa sua, potevi conquistare il piano rialzato e sentirti sovrano del mondo. Almeno fino alle undici di sera, quando i suoi rientravano dal teatro del giovedì.

«Come funziona questo affare?», protestai scuotendo la tastiera del pc.

Cinque mesi di lingua svedese erano stati peggio di una doccia gelata, nella storia delle mie trasferte non era mai stato così difficile imparare qualche vocabolo, forse Stoccolma era seconda solo a Mosca e al suo incomprensibile cirillico. Fortunatamente gran parte della popolazione parlava inglese, o me la sarei cavata soltanto col linguaggio dei segni.

Tirai fuori il cellulare e mi arresi all’idea di vederla lì, la mia pagina Facebook, prima che Patrick intervenisse con pugno deciso.

«Aspetta, faccio io», ridacchiò.

Premette un paio di tasti, uscì dal suo profilo e mi lasciò inserire le credenziali per entrare nel mio. Puzzava così tanto di fumo da sembrare una ciminiera, ed era tutta colpa di William e della sua mania di contrabbandare sigarette.

«Benissimo», esultai. «Allora, ricapitoliamo».

Io e Patrick avevamo stretto amicizia “virtuale” dopo il nostro secondo incontro, così come avevo fatto con William, con suo fratello maggiore e con un paio di ragazzi di due anni più grandi. Era bellissimo esibire tutti quei contatti, sembravo un giramondo navigato, e questo piaceva da matti quando si trattava di fare conoscenza. Funzionava sempre, era un po’ come mostrare un aspetto di sé insolito, un’abitudine che non si vede tutti i giorni.

«Magdalena la aggiungo?», chiesi scorrendo il profilo della biondina di sotto. Era carina, forse un po’ troppo gracile per i miei gusti, ma chissà, magari per una futura vacanza a Stoccolma.

«Stai scherzando? È tutta matta», si impuntò Patrick. Crollò al mio fianco e appoggiò il bicchiere di plastica sulla scrivania.

Sembrava di stare a una festa delle medie travestita da festa di trentenni, era favoloso.

«Prova con Susanne», continuò, cambiando pagina su una rossa decisamente più interessante. «Non è venuta stasera, ma penso si ricordi di te. L’hai incontrata… mmmh. Quando accidenti l’hai incontrata, Scott?».

«E che ne so?», replicai a tono. «Sei tu che dovresti dirmelo, non io».

«Forse alla mia festa di compleanno», ipotizzò. «O forse era quella dell’anno scorso».

«Neanche mi conoscevi l’anno scorso».

«Magari ci sarai al mio compleanno futuro». Sbatté le palpebre con convinzione. «Sì, insomma, quello che deve ancora venire. E a quel punto conoscerai Susanne».

«Patrick, che cavolo c’è dentro questa coca cola?», scherzai guardando la bibita rimasta nel bicchiere.

O si fingeva ubriaco, oppure era esattamente come pensavo: le sue sinapsi non si collegavano nella maniera corretta.

«Ruth». Ebbi l’ispirazione al decimo profilo. «Lei sì che me la ricordo, quanto diavolo è alta per la sua età?».

«Qui in Svezia ci sviluppiamo prima».

«Sì, come no», risi, mentre qualcuno bussava insistentemente alla porta.

Patrick si girò come un fulmine. Tornava straordinariamente lucido quando si trattava di controllare che i suoi non fossero rientrati prima.

«Oddio, tua madre!», lo canzonai. «Presto, nasconditi nell’armadio».

«Nel caso dovresti farlo tu, non io», brontolò.

Dall’altro lato della porta, la voce di Astrid arrivò forte e chiara. Anzi, arrivò proprio nel momento giusto, e corsi subito a controllare di averla già tra le amicizie. Si rivolse a Patrick parlando in svedese, e fu come ascoltare un nastro inceppato sulle consonanti D, K, e S.

«Comunicazione di servizio», tradusse Patrick per me. «Sono finite le pizzette di sotto».

«Astrid, siamo amici su Facebook?», le urlai dalla scrivania.

«Sei Scott?», esitò lei, stavolta in inglese. Incredibile, neanche si ricordava la mia voce.

«Sì», confermai acido. «Quello per cui stai facendo la festa di addio».

«Non so, io mi sono imbucata», riferì al volo. «Comunque aggiungimi pure, e già che ci sei fatti dire da Patrick dove sono le pizzette».

Patrick rovesciò gli occhi al cielo, segno che non gli importava nulla di Astrid, degli invitati e tantomeno delle pizzette. Erano le dieci passate, quindi il suo cruccio iniziava a crescere. Come ci avrebbe sbattuti fuori in meno di un’ora?

Da parte mia non avevo preoccupazioni, i miei sarebbero rimasti alzati fino a tarda notte per preparare i bagagli, e la sera prima della partenza avevo sempre qualche bonus da giocare. Mi lasciavano più libertà, forse per i sensi di colpa, forse per darmi fiducia, ma ci avevo fatto il callo ormai. Da un lato era anche divertente, in meno di un anno sviluppavo amicizie così superficiali da non aver tempo per litigi o incomprensioni, e quando me ne andavo le persone erano sempre ben contente di farmi una festa.

Preparavo bellissimi discorsi d’addio, il più delle volte decantati in piedi su un tavolo o su qualche divano retrò, e aggiungevo su Facebook metà della gente che avevo incontrato, per spiccare il volo con qualche nome in più e tante amicizie in meno.

Stoccolma era stata una bella meta. Città interessante e coetanei spigliati, un po’ mi spiaceva barattarla con Londra, ma almeno avrei vinto un dettaglio importante: sarei rimasto di più. Più a lungo di qualsiasi “scappatella mondiale” mai attuata.

I miei genitori stavano proprio invecchiando.

«Mi aiuterai a farli uscire, vero?», si preoccupò Patrick sentendo il casino di sotto.

«Faremo come la scorsa volta», sdrammatizzai. «Veloce, rapido e indolore».

«Simulare un incendio in salotto non è stato un metodo indolore, ti ricordo».

«Scherzi? Erano tutti a Gamla Stan nel giro di cinque minuti».

«Sì, anche la polizia era qui nel giro di cinque minuti», rincarò.

«Beh, Patrick, non si può certo avere tutto». Incrociai le braccia al petto e lo guardai con finto rimprovero, poggiandomi allo schienale della sedia. Era scomoda, maledizione, torturava una ad una tutte le vertebre. «Forse sarà Astrid a portarli via», ragionai. «La gente trova inaccettabile una festa senza pizzette».

«I miei mi uccideranno», sospirò lui.

«Non ti hanno soppresso per un finto incendio, non ti sopprimeranno ora».

Sollevai il bicchiere di plastica e gli feci un brindisi, mentre sotto di noi si frantumava qualcosa di molto simile a una lampada di cristallo.

«Hai oggetti d’epoca in questa casa?», azzardai.

«Non chiedermelo. Io… preferisco non saperlo, ok?».

Il suo bicchiere si scontrò col mio.

Era il mio novantesimo brindisi. Alcuni li avevo fatti con diversi amici all’interno della stessa città, altri li avevo semplicemente fatti da solo. Ma di certo era un numero importante per un ragazzo di quasi diciotto anni. Chissà cosa avrei fatto una volta maggiorenne, una volta diplomato. Magari questa cosa del viaggio mi sarebbe entrata nel DNA, e da adulto anche per me sarebbe stato impossibile rimanere fermo troppo a lungo nello stesso luogo.

Se è vero che i figli sono uguali ai genitori, io avevo un destino già scritto.

«Sai Scott, devo dire che mi mancherai», ammise Patrick. Gonfiò il petto con fare solenne.

«Ora stai diventando sentimentale», lo avvisai.

«Sono stati cinque mesi divertenti». Si concesse una pausa di riflessione, forse stava ripensando alla simulazione d’incendio sul suo tappeto persiano. Eh, già. Era stato divertente eccome. «Peccato, potevate trasferirvi qui».

Peccato.

Era sempre stato un “peccato”, ma dai peccati non è così facile fuggire, soprattutto se non sei tu ad avere il controllo del timone. Alla fine Patrick si era rivelato una buona conoscenza, e magari con lui sarebbe rimasto qualcosa in più di un semplice rapporto di cortesia.

Mi illudevo sempre, almeno con una o due persone per ogni città, ma anche quella volta non cambiò.

E il giorno dopo, all’aeroporto di Skavsta, avevo quindici amici virtuali in più, ma nessuno in carne ossa a salutarmi prima della partenza. Nessuno davanti a casa, nessuno alla fermata della navetta, e nessuno all’ingresso del check-in.

… peccato.