Prologo «Il Sognatore»

27 Giugno 2018

Durante il secondo Sabba della Dodicesima Luna, nella città di Pianto, dal cielo cadde una ragazza.
La sua pelle era blu e il suo sangue era rosso.
Si schiantò sopra un cancello di ferro, che per l’impatto si deformò, e lì rimase appesa, terribilmente inarcata, aggraziata come una danzatrice che si abbandona riversa sul braccio del suo innamorato. Una guglia viscida la teneva inchiodata al suo posto. La punta, che le sporgeva dal petto, scintillava come una spilla. La ragazza ebbe un breve sussulto mentre il suo fantasma si liberava e dai suoi lunghi capelli piovevano boccioli di un rosso fiammante.
In seguito, avrebbero detto che non erano affatto boccioli, ma cuori di colibrì.
Avrebbero detto che la ragazza non aveva perso sangue, ma lo aveva pianto. Che era oscena, perché mentre moriva a testa in giù si era leccata i denti sfacciatamente e aveva vomitato un serpente che, toccando terra, si era trasformato in fumo. Avrebbero detto che era arrivato uno sciame di falene che, frenetiche, avevano tentato di sollevarla e portarla via.
E questo era vero, ma solo questo.
Le falene però non avevano avuto alcuna possibilità. Non erano più grandi delle boccucce attonite dei bimbi, e persino riunite a dozzine avevano potuto al massimo tirare le ciocche dei capelli che si andavano scurendo, finché le loro ali non si erano appesantite, inzuppate dal sangue della ragazza. Vennero spazzate via insieme ai boccioli quando una raffica di vento e sabbia travolse la strada da cima a fondo. Sotto i piedi, la terra si sollevò con un sussulto. Il cielo ruotò sul suo stesso asse. Un bizzarro luccichio trafisse il fumo che si levava a ondate e il popolo della città di Pianto dovette strizzare gli occhi per schermarli. Tempesta di sabbia, luce bollente e il puzzo del salnitro. C’era stata un’esplosione. Sarebbero potuti morire tutti, con facilità, ma l’unica vittima era stata quella ragazza, buttata giù da una qualche tasca del cielo.
Aveva i piedi nudi e la bocca macchiata del succo delle prugne selvatiche. Le sue tasche erano piene di frutti. Lei era giovane e bella e stupita e morta.
Era anche blu.
Di un blu opalescente, chiaro. Blu come i fiordalisi o le ali di una libellula o un cielo di primavera, non estivo.
Qualcuno urlò. Le urla richiamarono altre persone, e anche loro urlarono. Non perché una ragazza fosse morta, ma perché era blu, e questo, nella città di Pianto, significava qualcosa. Anche quando il cielo smise di vorticare e la terra si riassestò e il luogo dell’esplosione sputacchiò l’ultimo sbuffo di fumo che si disperse, le urla proseguirono, nutrendosi di una voce dopo l’altra, un virus dell’aria.
Il fantasma della ragazza blu si raccolse e si appollaiò, desolato, sulla punta acuminata della guglia, appena un centimetro sopra il suo stesso petto immobile. Scioccato, ansimante, il fantasma gettò indietro la testa invisibile e guardò in su, addolorato.
Le urla proseguirono ancora.
E dall’altra parte della città, in cima a un cuneo monolitico di metallo liscio e lucido come uno specchio, una statua si mosse, come svegliata dal tumulto e, lentamente, sollevò l’enorme testa caprina.